La Fiera Italiana dei Vignaioli Indipendenti (FIVI), tenutasi a Piacenza, è proprio finita, e lo dico con un pizzico di malinconia. Un posto magico, oserei dire, per i winelovers che hanno affollato i padiglioni. La filosofia, da sempre perseguita dagli organizzatori, è quella di riunire piccoli produttori che hanno a cuore il territorio e il rispetto della natura, promuovendo la qualità e l’autenticità del vino italiano. Infatti il volto della FIVI è quello dei piccoli produttori con le mani in pasta nella terra: la manifestazione quest’anno ha chiuso i battenti con un incremento di visitatori del 50% rispetto all’anno precedente. L’entrata è spartana, niente a che vedere con la faraonicità del Vinitaly. All’ingresso mi danno un bicchiere e un carrello, infatti è possibile non solo degustare ma anche acquistare. Il paese dei balocchi per gli amanti del vino. Cerco di capire da dove cominciare, ma mi accorgo che non c’è una vera e propria mappa da seguire. Mi domando se la divisione degli spazi è fatta per regione o per iniziali della cantina. Niente di tutto ciò, la distribuzione è casuale e questo mi piace. Due capannoni costellati da piccole cantine, stipati d’entusiasmo e con i vignaioli prodighi di racconti e aneddoti sui loro vini, di cui vanno giustamente orgogliosi. Per me, che sono sempre alla costante ricerca di quell’autenticità che spesso si racchiude nelle piccole realtà, è una vera manna. Prima cammino un po’ a zonzo senza una vera meta, osservo questo formicolio di gente, poi affondo il mio bicchiere in alcune realtà interessanti e comincio il viaggio. Assaggiare, degustare, chiacchierare ed ascoltare: è tutto un fermento. Allora decido di fare con calma, ad essere frettolosi si rischia di non ascoltare e soprattutto di non dare la giusta importanza alla degustazione. Ci sono all’incirca 400 produttori, troppi per poterli scoprire tutti in una sola giornata, ma il bottino di nuove conoscenze me lo porto ugualmente a casa. Così mi permetto di fare una difficilissima cernita indipendente, come i vignaioli, fuori dalle logiche e dalla forzatura psicologica dei nomi blasonati. Vi parlerò di tre vini, tre scoperte (per me), tre cantine che mi hanno impressionato e appassionato.
Il primo è un vino bianco il Liebenstein, un nome che ci indica già la regione di provenienza, l’Alto Adige. Incontro Anton Baron Longo, appena 27 anni, figlio, erede e custode dell’esperienza secolare della sua famiglia, che da più di 150 anni fa vino nelle terrazze altoatesine di Egna (Neumarkt in tedesco). Il Liebenstein 2015 è una miscela di Pinot Bianco e Chardonnay, di cui fonde le rispettive acidità e dolcezza. Un blend bene armonizzato che racconta la struttura, l’emozione e l’energia delle terre altoatesine. Al naso aromi di banana, pesca e pera: (banana è un aroma distintivo dello Chardonnay), al palato la freschezza del Pinot Bianco si fa sentire. Ancora nel finale, susina e pompelmo, oltre a sapori tostati riconducibili a un rapido passaggio in barrique. Da provare con dei formaggi salati a pasta dura o semplicemente con un crostino e un’alice.
Il secondo vino l’ho trovato in Piemonte da Orlando Abrigo in piena terra di Langhe. Provo la potenza del Barbaresco Montersino 2011. Colore rubino con un’unghia aranciata, il Nebbiolo al naso rilascia mirtilli, fragoline, sottobosco, cuoio unitamente ad elementi dolci e speziati derivanti dalla maturazione in rovere. I tannini sono nobili, vellutati. Sul finale sono proprio i tannini a dare una zampata di severità, ma non asciugano mai troppo. A mio avviso è un vino superbo, di corpo e da tenere in cantina ancora per qualche anno.
Il terzo vino che porto in tavola è un vino biologico, un cru 100% Sangiovese in purezza, il Ruschieto che grazie alla cura maniacale di Ettore Ciancico (azienda La Salceta) ottiene risultati davvero particolari. Fermentazione con propri lieviti a temperature controllate più un lungo periodo sulle fecce. Del Ruschieto ho assaggiato varie annate e la caratteristica di un Sangiovese in purezza si sente grazie a un tannino prorompente. Un Sangiovese che va addomesticato ma senza compromessi così come il Sangiovese merita. Colori lucenti dal rubino al granato. Al naso si presenta subito con temi floreali e fruttati quali more, amarene, mirtilli e lamponi e per essere ancora più persuasivo il Ruschieto aggiunge anche note balsamiche. Al palato è ruvido e capriccioso come dicevo ma con un piatto di brasato risulterebbe sinuoso. Ma è proprio questa baldanza che bisogna cercare e apprezzare in un Sangiovese. Grazie FIVI, mi siete veramente piaciuti.